wtorek, 19 marca 2013

Fabrizio Frasnedi - Cud mojej Apocalypsis

"Szanowna Pani Ewo, 

(...) przesyłam w załączeniu wspomnienie o p. Zygmuncie. 

Znam prof. Frasnedi'ego od 2004 r., zajęcia z nim i z jego doktorantami z dydaktyki nauczania języka włoskiego ukształtowały moje podejście do ucznia (nie uczył nas, jak przygotowywać ćwiczenia z gramatyki, ale pokazał, jak szanować młodzież i czego od niej wymagać), dlatego zupełnie mnie nie zdziwiło, że miał coś wspólnego z "diasporą Grotowskiego". Przeglądając archiwum Instytutu znalazłam jego aplikację na staż w ramach Biennale". Katarzyna Woźniak

Fabrizio Fransedi professore dell'Universita' di Bologna    https://www.unibo.it/sitoweb/fabrizio.frasnedi/cv 

Il miracolo della mia “apocalypsis”.

Coonobbi Zygmunt a Venezia. Ebbi la fortuna di partecipare allo stage sulla vocalità che egli tenne alla Biennale – teatro. Era il  ……. (la data, per favore, non riesco a ricordarla). Ero un trentenne con già una vita alle spalle, aperto al futuro ma con nodi intrecciati di ansie e paure.
Pensavo e desideravo che il teatro sarebbe stato la mia vita. Non accadde, non professionalmente almeno, perché restò, invece, insieme alla musica, il più grande amore. E perché vivo e ho vissuto con un’anima fatta di teatro e di musica. Shakespeare ha detto più volte che la vita è un teatro, e ha anche aggiunto che, sulla scena della vita, siamo attori piuttosto scadenti. Eppure, in questa nostra goffaggine nel recitare copioni da sempre già scritti, e nei quali ci sforziamo talvolta di aggiungere qualche battuta che sia proprio nostra; in questo nostro annaspare sulla scena del mondo c’è una bellezza e una grandezza che non mi sono mai stancato di osservare e di amare. Il “prologo” dei Pagliacci dice bene perché.

E voi, piuttosto che le nostre povere
gabbane d'istrioni, le nostr'anime
considerate, poiché noi siam uomini
di carne e d'ossa, e che di quest'orfano
mondo al pari di voi spiriamo l'aere!

Recitiamo male sulla scena, come poveri istrioni appunto, come recitiamo male nella vita, e per lo stesso motivo, perché ci è terribilmente difficile essere veri. Uomini che assomigliano a guitti, dunque, ma anche guitti che non riescono a essere uomini davvero. Recitar, tremenda cosa.
Anche nel cattivo teatro c’è un fascino, tuttavia, come ce n’è uno nel nostro vivere annaspando. Perché in entrambe le dimensioni, nella vita e sulla scena, appare così la nostra prima condizione, quella dalla quale partiamo per le nostre avventure di conoscenza e di saggezza, alla ricerca, appunto, di altre possibili verità.
Sono sempre stato appassionato dalle ricerche di verità. Non da quelle filosofiche, poiché in esse la ragione è sempre in scacco, tradita dai suoi stessi tranelli, ma da quelle, piuttosto, che si manifestano come vita che dà vita alla vita: quelle dunque che si dicono con le note metafore dell’acqua che disseta, delle parole che comunicano vita, o che si intuiscono leggendo una storia o contemplando un agire, come appunto avviene in teatro.
L’amore per il teatro viveva dunque, in me, dentro l’appassionata ricerca dei percorsi capaci di spalancare l’anima e farle sentire il sapore del vivere.
La compagnia di Grotowski era per me, allora, un oggetto sacrale, che m’intimoriva e mi attraeva nello stesso tempo, e che pensavo come uno di quei luoghi del mondo nei quali la superficie delle cose comunica con le sorgenti nascoste dalle quali gli uomini traggono, con lavoro e fatica, fiato, respiro, luce, “verità” insomma, di quelle che si riconoscono dal dono di vita che sanno comunicare.
Partii dunque per Venezia in ansia. Sono sempre stato ansioso. Temevo per la conquista del biglietto, prima di tutto; sapevo che pochi sarebbero stati ammessi a vedere Apokalypsis, e io non avevo un accreditamento ufficiale, né come critico, né come studioso (perché non mi venne in mente che avrei potuto averlo?). Feci dunque una coda lunghissima al botteghino, il quale, oltretutto, si doveva cercare per invia et errores, come in un vero percorso iniziatico. Ebbi il biglietto anche quella volta (non sono mai rimasto fuori da un teatro, neppure alla scala nelle serate di punta), ma il biglietto era una condizione necessaria ma non sufficiente. Bisognava superare una specie di esame, convincere la compagnia dell’autenticità del proprio desiderio di assistere allo spettacolo. Era così, e fui dunque imbarcato da un qualche Caronte sulla barchetta diretta all’isola nella quale sarebbe avvenuta la rappresentazione. Seguii spasmodicamente ogni gesto,ogni passo, ogni respiro degli attori in scena; fui catturato da quel fraseggio sussurrato nel quale nulla era ovvio o casuale, ma non raggiunsi l’estasi.
Non ricordo più che nesso ci fosse fra la selezione per assistere allo spettacolo e quella per partecipare allo stage.
Avevo scelto la voce. Perché ne conoscevo il fascino. Perché, a teatro come all’opera, avevo più volte sperimentato il brivido giù per la schiena che certe voci, certi timbri, certe armoniche mi procuravano. Sapevo che la voce sa affondare nell’anima, con strumenti e segreti tutti suoi, e che questi affondi appartengono al regno della verità. Quanto a tecnica, però, ero digiuno: solo qualche inutile pregiudizio sulla tecnica del belcanto classico.
Ricordo però bene la selezione. Molik diede istruzioni nette e precise, quelle che poi avrebbe sempre ripetuto per tutta la durata dello stage. Era un maestro duro, staccato, assolutamente laico. All’inizio ne ebbi paura. Spiegherò meglio, passo dopo passo, che cosa intendo per “laico”: è infatti un aggettivo molto importante.
Le istruzioni erano “tecniche”, e non le ho mai dimenticate, anche perché ci lavorammo sopra per un paio d’anni, a Bologna, con i giovani che condividevano con me l’esperienza del laboratorio teatrale. Ma quello che avveniva in noi, seguendole, non era per nulla solamente tecnico. E non riguardava solo la laringe. Noi uscivamo da quelle sedute rivoltati come calzini. Altroché psicanalisi! Tornammo a casa, da quei 15 giorni, forti di un rapporto con noi stessi (e con il mondo, come sempre succede quando il rapporto con sé stessi è autentico) che forse non avremmo mai potuto raggiungere dopo anni di sedute con il miglior psicanalista del mondo; o dopo altrettanti anni di servizio fedele al più grande guru d’oriente; o dopo qualche decennio di esercizi spirituali Loyola. E senza che mai questo traguardo ci venisse prospettato come scopo.
C’era dunque una dissimmetria fortissima fra l’assoluta “laicità” delle istruzioni, l’assenza di qualsiasi intrusione del maestro nel nostro foro interiore e il coinvolgimento profondissimo nel caos dei propri abissi che ciascuno di noi viveva durante il lavoro.
Ecco, intanto comincia a chiarirsi il significato che attribuisco alla parola “laicità”. Il maestro dà istruzioni (le vedremo in dettaglio) che non chiamano in causa l’”anima” dell’allievo, o la sua coscienza; e non interviene mai, e per nessun motivo, sulla vicenda interiore che l’allievo sta vivendo durante le sue performance. Tutela, è vero, i suoi allievi dal pericolo dell’implosione psichica, ma lo fa con una semplice ripetuta raccomandazione: “occhi aperti” e “c’è qualcuno di fronte a voi, e voi vi state rivolgendo a lui”. Interviene quando vede qualcuno di noi precipitare verso la crisi: interrompe, acquieta, ma non interviene mai su ciò che ha provocato il cedimento dei meccanismi di controllo.
Zigmunt abbandona la sua laica e benefica distanza solo quando la performance di uno di noi prende forma, ma la abbandona in un modo che non la tradisce. È il suo giudizio, secco, netto: “non vedo nulla”, “non sento nulla”, “non ci sei”, “non sta succedendo niente”; oppure: “ecco, ora comincio a sentire”, “ora ci sei”, “sì, ora ci stai dicendo qualcosa”. Qualcosa, ma mai che cosa. E sempre senza perché, tranne, ovviamente, per censurare il tradimento delle sue istruzioni.
Eppure, nessuno di noi ha mai dubitato che avesse ragione.
Voleva il “miracolo”, lo chiamerò così. Voleva portare ciascuno di noi al punto di creare, nel suo corpo vocale, la genesi di un evento assoluto, che s’imponesse come verità e autenticità e si rivelasse, in modo indiscutibile, nella vibrazione corporea della voce.
Io lo vissi, quel miracolo. Per una volta almeno, nella vita che sto vivendo, sono stato un artista. E da quel giorno so che il miracolo è possibile, per tutti; che ha come condizione una tecnica, ma che la tecnica non basta. Perché scoprire il segreto della voce che sgorga e fluisce dal corpo, come una fontana, portata dall’energia muscolare che proviene dal basso è necessario, come è indispensabile imparare la verità controintuitiva che vuole il rilassamento completo degli organi vocali e muscolari alti: laringe, collo, spalle. Non stringere, non premere, non contrarre, non forzare con quegli strumenti. Tutto questo è vero e necessario, ma esiste un’altra condizione, che chiamerò in sintesi la vittoria sulla paura e sui suoi strumenti: tutti i chiavistelli del sé. Occorre mollare dentro, aprire, éclater, brillare, schine. Allora sì, la voce “brilla”. Spalancarsi nella voce, e così darsi, offrirsi senza paura di essere o di perdere essere nel lasciarsi andar via. Se il sé resta chiuso e arroccato, allora la tecnica sola non basta al miracolo. Produce certo qualcosa, soprattutto se ci sono già doti naturali alla base, ma non accade la meraviglia di una voce del tutto nuova, di una novità radicale e imprevedibile, che si annuncia, esprime qualche traccia, pian piano si rassicura ed esplode alfine in una metamorfosi che è davvero emersione di vita sepolta e segreta.
C’era dunque un rapporto assolutamente geniale, mi dice la riflessione che ora sono chiamato a riaprire, fra la dura e tecnica laicità delle istruzioni e il cammino per niente laico che ciascuno di noi era chiamato a fare in sé stesso. Geniale perché il soggetto, ciascuno di noi, insomma, non veniva mai “invaso” in modo diretto dalle istruzioni del maestro, non veniva stretto in modo minaccioso e non subiva nessun tipo di pressione diretta che riguardasse ciò che lo abitava nel profondo. Veniva invece condotto, con strumenti laici e non violenti, sulla soglia di una esperienza possibile, che poteva benissimo non vedere o non valicare.
La zona delicata delle istruzioni, quella nella quale avveniva l’opportunità, per l’allievo, di compiere un lavoro su di sé che potesse produrre il miracolo, era quella che potrei chiamare dell’apertura segreta alla relazione.
“Occhi aperti”, innanzitutto. Nulla di più (ecco ancora la laicità). Il signficato non veniva dato. Lo vivevi, se e come volevi. Devi proiettarti fuori di te, interpreto, ma neppure questo veniva detto. E quegli occhi dovevano guardare qualcosa; e la voce a quel qualcosa doveva parlare, anche senza parole, o con parole rubate alla memoria: un testo, una canzone. C’erano le crepe nei muri, le macchie sul pavimento, lame di luce; c’erano gli altri che lavoravano con te, coi loro visi, coi loro capelli, coi loro occhi, con le piccole cose che portavano addosso. Poi doveva accadere che dietro a quei piccoli segni, che dentro a quelle presenze altre presenze si manifestassero. Tu, insomma, venivi richiamato a guardare qualcosa, e accadeva che in quel qualcosa tu “vedessi” oggetti, luoghi, persone. Così, accadeva che tu parlassi alla tua vita, alla tua memoria, ai luoghi e alle persone che la tua mente evocava; accadeva che tu dicessi quel che non avevi mai detto, che tu spiegassi quel che non avevi mai spiegato, che tu sentissi quel che non avevi mai sentito, che tu capissi quel che non avevi mai capito. E poteva, allora, accadere il miracolo. Che tu insomma vivessi un momento di verità, e che la tua voce, già sul sentiero di un’impostazione corretta, già libera dalle strettoie dell’abitudine e dalle contrazioni dell’ovvietà quotidiana, imboccasse quel sentiero di verità e si caricasse di tutta la forza, di tutta l’energia, di tutte le vibrazioni di quella ritrovata autenticità. Nessuno poi ti avrebbe chiesto, e meno che meno il maestro, che cosa ti era accaduto, dove eri stato, con chi avessi parlato, che cosa vessi rivissuto o sofferto, di che cosa ti fossi finalmente liberato. Tu avevi già detto tutto senza dirlo, questo davvero contava: avevi “detto” un testo, cantato una canzone, modulato stringhe di voce e in quel tuo momento artistico si era dato il miracolo di qualcosa che era accaduto in te ed era divenuto verità di glossolalia, di dizione, di canto. Che meraviglia, in quei momenti, e che incredulità, quando capitava a te. Il maestro, anche lui, era radioso, ma sempre assolutamente laico. “Ecco, ci sei. Hai visto, ci sei. Così”.
Ho pensato spesso a quante vite si potrebbero far di nuovo brillare, e quante voci esplodere, con quindici giorni simili a quelli. Se lo proponessimo, ci prenderebbero per matti.  È sempre così: chi conosce la via per uscire dalle trappole non viene creduto, e deve contemplare desolato i triboli del prossimo senza poter porgere l’aiuto che potrebbe e saprebbe.
Ho conosciuto guru e maestri capaci di far brillare la vita, e di tutto questo avverto il privilegio e la responsabilità. Ho cercato di vivere il mio mestiere di docente così, insegnando in modo da fare brillare la vita, fra mille difficoltà. Sembra che il nostro prossimo non abbia voglia di brillare. Io non posso dimenticare il miracolo che ho vissuto con te, Zigmunt.

Cantai una canzone brasiliana: vai azulão… 

Powyższy tekst, w tłumaczeniu Katarzyny Woźniak i Pauliny Safian
ukaże się, prawdopodobnie, w grotowski.net.
Nim to nastąpi, po wyrażeniu zgody zainteresowanych stron, 
opublikowałam tekst w wersji polskiej 28.10.2013 http://ewamolik-zygmunt.blogspot.com/2013/10/fabrizio-frasnedi-tekst-nie-tylko-dla.html 

wtorek, 5 marca 2013

SYLWIO LANGE bardzo Ci dziękuję !

I jak tu nie wierzyć w moc Facebooka. Zgłosiła się do mnie, chwilkę ledwie temu - Sylwia Lange, wrocławianka. Efekty kontaktu oceniam jako spektakularne. 
Napisała; byłam stażystką Z. Molika, mam wiele ciekawych po-stażowych materiałów, prześlę. Nie tylko dotrzymała słowa, dotrzymała go w imponującym tempie. Poniższa korespondencja fejsowa jest dzisiejsza.

Sylwia Lange
w załączniku pierwszy z plików od Omer Faruk Zora. warsztat "ciało i głos" zaczął się pierwszego dnia wiosny - jutro sprawdzę rok. o śmierci Pana Zygmunta dowiedziałam się od Stefanii jak ledwo co wjechałam do Włoch (na wyjeździe z rodziną)... przez cały pobyt w Toscanii myślałam o tych warsztatach - byłam raz u p. Zygmunta - to było jak przebudzenie. jutro doślę kolejne 'impresje', dobrej nocy. 
Staż w którym wzięła udział rzeczywiście inaugurował wiosnę, sprzyjał więc przebudzeniu.  Odbył się   21 - 25  marca  2006. 
OMER FARUK ZORA, TRT Radyo, do zlokalizowania na Facebooku: omer.zora 
impressions about the workshop by Zygmunt Molik 

Last season I had seen a play in Ankara State Theatre. Two men and a woman was performing “Hund, Frau, Mann” by Sibylle Berg. The man who was playing dog was really different from his partners. His voice was in stereo not in mono like his partners (and like 99% of all actors i have seen before) It was wonderful because while all other sounds were coming from their mouth to your ears directly, his voice was travelling in the space and then was reaching to you. After the performance I started to think that he might have one more mouth in his back of the neck. Since it was impossible for a human being i was wondering to learn the technique that he used. I asked to my advisor: “I want to have a stereo voice instead of mono. How can I learn this?” He said: “you shall better to learn about Grotowski”.
After a couple of months later i have found the book “Towards a Poor Theatre”. It was magnificant because it was undoubtedly more than what we were trying to explore by ourselves in our amateur drama society. The book also contains some exercises about body and voice but it is always better to learn from a master than to learn from a book. This is why I decided to participate Body and Voice workshop by Zygmunt Molik.
For an outsider (an ordinary observator) the things we did in workshop may be seen as some kind of gymnastics. But it was not. We started by learning the body alphabet in terms of movement and voice. Then we were free to create our own “words”  (not in terms of language but in terms of movement and voice) to live our dreams, to reach or to explore the unknown. In my humble opinion, the key point was; repetition, repetition, repetition…
We were sixteen people from different languages, coming from different disciplines, expecting different things but wondering to learn the same. And I think I have learned a lot. 

Omer Faruk Zora